Ken Blanchard è per gli addetti ai lavori un maestro di grande esperienza che con semplicità esprime quanto appreso da sintesi certo più complesse.
E così in questo discorso pubblicato su you tube coglie un aspetto che spesso mi ha colpito nelle organizzazioni che riguarda l'"essere manager".
Già i significati che ruotano attorno a questa parola son molteplici, spesso in aula, durante i corsi sulla leadership vedo che questo concetto riceve diverse accentazioni che sottolineano comunque due aspetti:
1. Quello di "gestore di problemi e progetti"
2. Quello di "gestore di persone"
Mediamente tutti si identificano nel primo, pochi e incerti nel secondo.
Se gestire problemi e progetti son due attività chiare ai più, almeno in teoria, il gestire persone è una frase che per lo più spaventa ed ha un contenuto molto poco chiaro.
Blanchard fa una domanda ai managers che spesso faccio anch'io:
E risponde loro:
- Se sì, faccia il manager
- Se no, rimanga a fare il suo lavoro
Per gestire persone ci vuole prima di tutto Passione, poi si può lavorare per lo sviluppo di competenze specifiche, ma il pre requisito è la passione!
E qui si apre un tema, che è quello del riconoscimento della propria identità professionale, nel quale quasi sempre si lavora nel coaching ai middle managers.
Poniamo il caso di un giovane tecnico, 40 anni circa, visto che ormai ha raggiunto un alto livello di competenze tecniche l'azienda decide di farne un manager.
Questi ha probabilmente una preparazione tecnica molto elevata e una preparazione invece sulle soft skills molto bassa.
I problemi che si pongono sono molteplici:
Oltre alla criticità inerente lo sviluppo delle capacità organizzative (problem solving, project management, time management, decision making) e delle capacità di leadership (gestione della squadra, gestione del conflitto, comunicazione efficace, gestione del feedback per dire le primarie) c'è un'altro bisogno che spesso non viene visto: la rielaborazione dell'identità professionale.
Sì perché la persona si è identificata fino ad allora in un "ottimo tecnico", è così abituata ad essere il numero 1 o 2; adesso che invece sta diventando un manager ha davanti a sé errori da compiere, successi e insuccessi da affrontare con un livello di sicurezza e di autoefficacia percepita nettamente inferiore alla norma.
Occorre allora un supporto (magari da parte del capo o delle HR) di questo percorso di sperimentazione delle nuove competenze, affinché si rafforzi l'autoefficacia percepita in queste aree specifiche e si possa ridefinire il sé professionale; ciò per evitare uno degli esiti peggiori: la negazione e la rimozione della difficoltà con la formazione, in prima battuta, di un manager che non sa ascoltare, in primis sé stesso.
Già i significati che ruotano attorno a questa parola son molteplici, spesso in aula, durante i corsi sulla leadership vedo che questo concetto riceve diverse accentazioni che sottolineano comunque due aspetti:
1. Quello di "gestore di problemi e progetti"
2. Quello di "gestore di persone"
Mediamente tutti si identificano nel primo, pochi e incerti nel secondo.
Se gestire problemi e progetti son due attività chiare ai più, almeno in teoria, il gestire persone è una frase che per lo più spaventa ed ha un contenuto molto poco chiaro.
Blanchard fa una domanda ai managers che spesso faccio anch'io:
"A lei piacciono le persone? le interessa la loro crescita?"
E risponde loro:
- Se sì, faccia il manager
- Se no, rimanga a fare il suo lavoro
Per gestire persone ci vuole prima di tutto Passione, poi si può lavorare per lo sviluppo di competenze specifiche, ma il pre requisito è la passione!
E qui si apre un tema, che è quello del riconoscimento della propria identità professionale, nel quale quasi sempre si lavora nel coaching ai middle managers.
Poniamo il caso di un giovane tecnico, 40 anni circa, visto che ormai ha raggiunto un alto livello di competenze tecniche l'azienda decide di farne un manager.
Questi ha probabilmente una preparazione tecnica molto elevata e una preparazione invece sulle soft skills molto bassa.
I problemi che si pongono sono molteplici:
1.Gli piacciono le persone? (motivazione)
2. E' consapevole di quello che ci si aspetta da lui come manager? (ha chiaro il ruolo?)
3. E' consapevole delle proprie competenze a disposizione del ruolo? (capacità di autosviluppo)
Gli esiti di questa "promozione" possono quindi essere diversi sia per lui che per le persone che gli faranno capo.
Oltre alla criticità inerente lo sviluppo delle capacità organizzative (problem solving, project management, time management, decision making) e delle capacità di leadership (gestione della squadra, gestione del conflitto, comunicazione efficace, gestione del feedback per dire le primarie) c'è un'altro bisogno che spesso non viene visto: la rielaborazione dell'identità professionale.
Sì perché la persona si è identificata fino ad allora in un "ottimo tecnico", è così abituata ad essere il numero 1 o 2; adesso che invece sta diventando un manager ha davanti a sé errori da compiere, successi e insuccessi da affrontare con un livello di sicurezza e di autoefficacia percepita nettamente inferiore alla norma.
Occorre allora un supporto (magari da parte del capo o delle HR) di questo percorso di sperimentazione delle nuove competenze, affinché si rafforzi l'autoefficacia percepita in queste aree specifiche e si possa ridefinire il sé professionale; ciò per evitare uno degli esiti peggiori: la negazione e la rimozione della difficoltà con la formazione, in prima battuta, di un manager che non sa ascoltare, in primis sé stesso.
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